martedì 20 giugno 2017

Il valore dell'altare. Memorie liturgiche sarde - Convegno di Iglesias del 17 ottobre 2013

L’altare maggiore della chiesa sarda tra centro liturgico e punto di devozione




Davanti “a sas iscalinas de su altare mannu”. Quante volte, fra le mura delle chiese sarde, nelle sacrestie, si sono sentite risuonare queste parole, nelle registrazioni di decesso, nei testamenti e oggi, in un tempo dove tutto è in discussione, e poco resta in riflessione e meditazione, queste parole, tolte appunto da un semplice testamento, ci devono servire. Perché?
Per un sardo, per un fedele cattolico del grande Regno di Sardegna e Corsica, cosa significava chiedere una sepoltura presso l’altare maggiore? E, con ancor più umiltà, presso le scale del medesimo? Cosa si sentiva, in questo preciso punto, che meglio conosciamo [dopo il prezioso intervento del collega e del prof. Bux][1]del grandioso edificio chiesastico locale? In una cattedrale immensa, come quella di Sassari o Oristano, cosa spingeva a volere la propria sepoltura presso i gradini dell’altare maggiore? Devozione, certo, amore per i “propri santi”, vicinanza al punto spiritualmente più elevato della costruzione, al punto dove Cielo e terra si toccano.
Un excursus si rende però necessario, per comprendere come e con quali modalità la presenza dell’altare e il suo forte simbolismo si siano evoluti in Sardegna nel corso dei secoli, e come si sia formato il modus cogitandi del popolo riguardo l’altare maggiore delle proprie chiese.
Sin dalla piena età bizantina e poi giudicale si hanno riscontri documentari e materiali (sebbene rari e non sempre spiegabili) sulla presenza di un altare centrale, nelle chiese, dotato di un preciso apparato liturgico e legato ancora a schemi tipici delle pratiche di culto orientali. Nelle piccole chiese, come in quelle di grandi dimensioni, solitamente si poteva trovare un altare del tipo “a mensa”, staccato dall’abside e occultato quasi totalmente da grandi strutture lignee operate e arricchite da drappeggi, una sorta d’iconòstasi ridotta ai minimi termini.
Personalmente, ho potuto osservare de visu molte chiese che mostravano ancora chiari i segni di una ormai scomparsa struttura lignea ancorata al livello del gradino più alto del presbiterio (che già nel secolo XI in Sardegna si presenta spesso sopraelevato seppur di poca altezza rispetto ad epoche precedenti nelle quali non se ne aveva alcuno se non nei battisteri), che alta quanto le pareti della chiesa e nelle chiese più antiche poggiante su plutei in pietra o marmo, copriva l’intera area absidale alla vista dei fedeli. All’interno, un altare in pietra (che nelle chiese più piccole si riduceva quasi alle dimensioni di un’ara), costituiva il cuore pulsante della chiesa, dove si celebrava il Sacrificio Divino al sorgere del sole, la cui luce entrava dalle monofore (in numero variabile) disposte lungo le pareti absidali. Non è ancora del tutto chiaro come strutture come queste potessero convivere con i meravigliosi cicli pittorici che spesso rivestivano le pareti absidali (da ricordare fra tanti quello della SS.ma Trinità di Saccargia), se non ipotizzando che tali cicli servissero come strumento di meditazione, elevazione spirituale, “istruzione” del clero e non fossero destinati alla visione dei profani; altra ipotesi è che tali cicli siano venuti gradualmente a sostituire le iconostasi (salvando i plutei come netto elemento di separazione tra clero e fedeli), che certamente – seguendo la tradizione orientale cui la Sardegna rimase legata per molto tempo anche dopo il totale rientro nell’orbita liturgica occidentale – erano più fragili e soggette a deperimento (nonché a sempre latenti pericoli d’incendio).
Coll’insediarsi sempre più marcato dei vari Ordini monastici, chiamati dai Giudici dei quattro Regni Sardi, nonché del diretto intervento di san Gregorio VII, la situazione mutò; ci si avvicinò, infatti, a moduli sempre più romani (l’invito del papa fu forte, quasi un ordine), e la liturgia, nella “pratica”, cambiò modalità di espressione, mentre le devozioni popolari e il “sentimento artistico-religioso” (se tale espressione mi è concessa) dei sardi continuavano ad essere legati, in vari modi e in varie forme, alle antiche tradizioni bizantine (e ancora oggi molte reminiscenze restano tenacemente legate al nostro patrimonio culturale e folkloristico). In età tardo-giudicale, dunque, le chiese risorsero e, distrutte o pesantemente modificate quelle paleocristiane, bizantine (delle quali purtroppo restano molti frammenti archeologici ma pochi esempi intatti – tra questi la chiesa rupestre di Funtana Gutierrez e Chigizzu a Sassari, la chiesa di San Giovanni di Sinis, il San Saturnino di Cagliari, il Sant’Antioco dell’isola omonima o la Santa Sabina di Silanus, il Santo Salvatore di Sinis e altri), e neoromaniche, si eressero nuovi edifici in stile romanico di puro gusto toscano, pian piano contaminati – col passare del tempo – da moduli lombardi e gotici di provenienza nord-italiana e francese, e poi le straordinarie architetture pisane della SS.ma Trinità di Saccargia. Ma l’altare, in tutti questi cambiamenti – inevitabili – seguitava a restare il centro nevralgico delle chiese sarde. Ne sono testimonianza eloquente, fra le tante fonti, i condaghes.
Come sappiamo, non tutti i condaghes della Sardegna giudicale sono giunti sino a noi. Tra i pochi superstiti, ancora si studiano (poiché fonti inesauribili di conoscenza sull’organizzazione sociale, economica e religiosa della Sardegna medievale), quello di San Pietro di Silki (contenente al suo interno quello di Santa Giulia di Kitarone e quello di San Quirico di Sauren), quello di San Nicola di Trullas, quello di San Michele di Salvennor e quello di Santa Maria di Bonarcado. Tranne quest’ultimo, tutti sono pertinenti alla regione del Logudoro, corrispondente all’antico Giudicato (o Regno) di Torres. Il Condaghe di Bonarcado, invece, prende nome dall’omonimo monastero camaldolese nell’antico Giudicato d’Arborea.
Risalenti complessivamente al periodo compreso tra il X e il XIV secolo, i vari condaghes sono ricchissimi di annotazioni di carattere prevalentemente economico, come tutti sanno. Ma tra uno scambio e una vendita, una lite e una corona, s’intravedono come piccole luci donazioni di sacre suppellettili, accenni a celebrazioni liturgiche, acquisizioni di argento e preziosi tessuti da utilizzarsi per la creazione di oggetti sacri da adoperarsi per l’addobbo dell’altare maggiore e per altri oggetti liturgici (esemplare è il caso del raffinato bisso già richiesto da Nicolò IV ai reggenti nobili dell’Isola di Sardegna per realizzare i paramenti papali[2]). E, indirettamente, queste piccole citazioni apparentemente insignificanti, riportano alla mente gli antichi arredi di quelle meravigliose opere d’architettura pieno-medievale che la Sardegna vantava in gran numero: dalla chiesa di S. Michele di Salvennor, alla maestosa basilica di Saccargia dedicata alla Trinità, o alla famosa chiesa di San Pietro di Silki in Sassari, per tacere della straordinaria cattedrale di Bisarcio o del superbo e insuperato San Gavino di Torres, gioiello prezioso della storia sarda. Le fonti dell’epoca, non troppo numerose e spesso di difficile inquadramento, non permettono sempre un’esegesi completa, ma lasciano intravedere dettagli interessanti ai fini del nostro intervento a questo incontro.
Nel corso del medioevo, con la progressiva caduta dei regni giudicali, nuove mutazioni si introdussero nelle chiese sarde. Gli ordini monastici, che per primi avevano introdotto l’uso (di derivazione gallicana) di erigere più altari nella chiesa per permettere a tutti i sacerdoti della comunità di poter celebrare prima dell’ora meridiana (san Gregorio in una sua Epistola ci ricorda di un vescovo francese che già nel VI secolo aveva fatto erigere nella sua chiesa ben tredici altari), iniziarono ad edificare chiese sempre più articolate, spezzando la severa monotonia delle fiancate romaniche e romanico-gotiche (interrotte spesso solo da monofore strette come feritoie) con piccole cappelle laterali. La definitiva presa di possesso degli aragonesi, infine, permise all’architettura gotica iberica di fare piena irruzione nel mondo sardo, moltiplicando nelle chiese le cappelle e riorganizzando gli spazi delle medesime, e in ogni angolo spesso trovava posto una semplice mensa d’altare ormai ancorata alla parete e sovrastata non più da pitture a fresco né illuminata da monofore ma impreziosita da retabli dagli scomparti variamente articolati, che nel corso del XVI secolo giunsero a dimensioni imponenti, come testimonia il superbo esempio del retablo della cappella palatina di Ardara, risalente al primo quarto del ‘500.
In tutto questo sommovimento degli antichi ordinamenti statali ed ecclesiastici (e specie con il rovinoso lento dispersi alla fine del ‘400 delle comunità monastiche a favore di quelle domenicane, francescane o agostiniane), si ebbe tuttavia un nuovo rifiorimento di “attenzioni artistiche” verso l’altare maggiore. Le nuove influenze catalane unite alla corrente architettonica gesuitica, diffusasi in tutta la Sardegna in pochissimi anni grazie all’opera dei grandi architetti e maestri gesuiti chiamati a Sassari dai loro confratelli per l’erezione del Collegio di Studi di Sassari (dal 1559/1560) e della chiesa con Casa Professa di Gesù-Maria (lavori conclusi nel 1627), ebbe un ruolo decisivo, che ha sempre meritato studi particolareggiati. Tutte le nuove ventate culturali presenti nell’Isola, che portarono importanti rinnovamenti nelle chiese, in modo diretto o meno, passarono – da questo momento - per “vie gesuitiche”. I modesti altari laterali e le piatte tavole catalane lentamente svanirono (con grande perdita per la storia dell’arte in Sardegna) e, specialmente nelle chiese più ricche, l’ingegno delle maestranze d’ascia e della pietra, dei doratori, degli architetti si lasciò andare alle fantasie barocche più sfrenate. Immensi retabli, specialmente nel Capo di Sopra, occuparono l’intera parete di fondo del presbiterio, raggiungendo – come nel caso dei retabli della Madonna del Rosario, di Sant’Antonio abate o di San Pietro di Silki in Sassari (per citarne alcuni fra quelli ancora esistenti) altezze considerevoli, variabili fra i 10 e i 14 metri, in un tripudio di dorature, volute, racemi, angeli, nicchie finemente intagliate, santi dalle vesti dorate e damaschinate. È il trionfo del barocco che, in piena ottica controriformistica, per esaltare ancor più il Santo Sacrificio dell’Altare e rivolgere il cuore del fedele alla Divina Bellezza, non lesina su effetti quasi teatrali, orientati al rapimento visivo del pio credente, che resta incantato di fronte a queste meravigliose espressioni d’arte che vogliono elevare lo spirito e adombrare già in terra le bellezze del Paradiso. In questo momento si risveglia l’attenzione – comunque mai sopita – dei sardi verso gli altari maggiori delle chiese, specie le parrocchiali e gli oratori delle confraternite, perché un ricco e grande altare maggiore iniziava anche a diventare simbolo di prestigio sociale e, spesso, ostentazione di ricchezza (specie da parte di Capitoli metropolitani o di Confraternite). Da studi da me condotti in diversi archivi, ho ricavato che molte delle notizie documentarie che ora s’hanno sugli altari maggiori più belli della Sardegna del Sei e Settecento procedono  da lasciti testamentari e contratti di prestazione d’opera da parte di confratelli; laici dunque, o da contratti fra i vari Capitoli e artisti privati. Come vediamo è ancora una volta il popolo (al contrario dei vescovi, i canonici erano sempre del posto) che, come nel medioevo offriva argento e pregiati tessuti per i monasteri vallombrosani o camaldolesi, così ora offriva denaro e rendite per la costruzione di così imponenti opere in oratori dedicati alla Vergine o nelle loro chiese parrocchiali, ancora spesso tenacemente dedicate a santi provenienti dal menologio orientale e mai abbandonati nella venerazione. Artisticamente, nemmeno la moderazione classicista importata in Sardegna da artisti della Penisola o le stravaganti ma equilibrate (almeno nelle dimensioni) creazioni del delicato barocchetto piemontese riuscirono a tenere sotto controllo le mirabolanti creazioni degli artisti e le idee dei committenti. Al contrario, le innovative e fantasiose maestranze svizzere (del Ticino, della Val d’Intelvi, della cosiddetta “Area dei laghi”), giunte per via gesuitica nel tardo ‘600, unendosi alle fantasie iberiche, sviluppavano e davano sostegno anch’esse a creazioni sempre più belle ma anche più esasperate e, come accennato, ostentate.
Per contro, il Capo di Sotto, iniziò a commissionare altari in marmi pregiati nelle più quotate botteghe liguri, creando quasi una spaccatura: il Nord era ancora spagnoleggiante, con rapide incursioni italiane e una discreta ma radicata presenza ticinese, mentre il Sud iniziava ad essere più aggiornato, libero in buona parte dai retabli iberici e aperto alle nuove costruzioni in marmo, più durevoli e pregiate (se non per impatto visivo almeno per materiale). Queste soluzioni presero piede lentamente in tutta l’Isola e alla fine del ‘700 si vedevano solo nelle piccole parrocchiali lavorare gli anziani intagliatori, creando quei pochi elementi che costituiscono gli ultimi esiti della retablistica di stampo iberico in Sardegna. Nelle cattedrali e nelle chiese più importanti l’altare maggiore si rinnova: tolte le vecchie ancone lignee, si commissionano straordinari altari in marmo, dai paliotti multicolore, che abbandonano definitivamente le vecchie architetture barocche e rococò per un temperato classicismo (anche se a volte venato di discreta esuberanza virtuosistica nell’ornato). Né è esempio il mirabile e singolare altare del Santissimo Sacramento commissionato dal vescovo (e sommo letterato e teologo) Pietro Bianco per la sua cattedrale di Alghero, perfetto esempio di neoclassicismo, severo, composto, forse algido ma indubbiamente singolare. Mi pare un esempio perfetto per aprire il XIX secolo. Nell’800 la situazione si stabilizza definitivamente: gli altari delle cattedrali si fermano, non mutano più forma. E così rimarranno in buona parte sino alle discusse applicazioni di certe distorte visioni delle imponenti Encicliche del venerabile Pio XII e dei Decreti del Concilio Vaticano II, specialmente della preziosa Mediator Dei (1947) e del tanto discusso Sacrosanctum Concilium (1963).
Alla luce di quanto esposto, risalta anzitutto la grande attenzione e il grande movimento che i sardi, ecclesiastici e laici, facevano attorno alle loro chiese, quasi gareggiando per abbellirne gli altari e specialmente quello maggiore. Nonostante le crisi, dovute ora alle guerre connesse alle varie dominazioni susseguitesi, ora alle pestilenze e carestie, nessuna persona nobile o benestante rinunciò mai a donare parte della propria eredità o qualche lascito per l’abbellimento dell’altare maggiore di questa o quell’altra chiesa. Prova ne sia, nel caso iglesiente, dei numerosi rifacimenti dell’altare maggiore, dovuti alla volontà del clero locale di dare più lustro e prestigio alla propria cattedrale e al pio desiderio del popolo di avere una sede episcopale decorosa e degna, da vantare con orgoglio. La devozione ai nostri santi più cari, infine, spingeva sempre a chiedere – da parte dei più ricchi o di sacerdoti o nobili – la sepoltura presso l’altare maggiore, nonostante i ripetuti divieti in materia da parte dei Sacri Canoni e dei vescovi (specie di quelli piemontesi), che mal vedevano la radicata consuetudine. Attorno all’altare maggiore della cattedrale di Iglesias sono sepolte molte persone, e per far spazio a queste, molte altre sepolture si saranno tolte nel corso degli anni. La fede e la devozione, sincere e autentiche, di persone che non scherzavano certo quando si trattava di decidere la sede ultima dove il corpo, dopo la propria morte, avrebbe aspettato la resurrezione, spingevano spesso a chiedere la sepoltura presso l’altare maggiore o ai piedi delle scalinate che gl’antistanno (nelle tombe delle cappelle laterali o nelle cripte si seppellivano solo persone aventi diritto di giuspatronato o appartenenti ad una precisa categoria – nel caso della cattedrale di Iglesias il carnero dei canonici si trova sotto la navata centrale). Rafforzava questa pia volontà la credenza che presso l’altare maggiore, l’unico delle chiese consacrato e officiato dalle più alte cariche ecclesiastiche, dove offrivano il Divin Sacrificio i successori degli apostoli durante i loro solenni pontificali, contribuisse a rendere più vicina l’Anima del defunto a Dio e al punto della chiesa a Lui più sacro. Non a caso, il secondo luogo scelto per le sepolture dei più abbienti era la cappella del Santissimo Sacramento: trovarsi anche da morti ai piedi del Signore, si presentava come una fonte di “sicurezza” e “salvezza”, e così era per l’altare maggiore, che assurgeva al ruolo di punto privilegiato e primo centro liturgico e devozionale per ogni fedele. Che questa connessione dell’altare maggiore con le sepolture fosse radicata in Sardegna fin dall’età giudicale lo conferma l’archeologia: durante i restauri di talune chiese risalenti all’XI o al XII secolo, si sono trovate – esternamente – disposte a raggiera attorno all’abside (e indirettamente all’altare) e solo lì – numerose sepolture. Le persone avevano tutte il capo rivolto verso Oriente, così come il celebrante all’altare, e i fedeli - vivi - dentro l’edificio. Questa simbologia evidentemente orientale, si è mantenuta, con qualche evoluzione, anche nei secoli seguenti, che come abbiamo visto tante cose hanno cambiato nelle consuetudini liturgiche sarde.
Tuttavia, l'altare maggiore delle chiese certo non era solo destinato a fare da “scorta” ai fedeli defunti. Fin dal medioevo, era centro di raccolta e di unione delle popolazioni dei vari centri: dalle curatorie giudicali sino alle comunità recenti, tutti gli abitanti – anche per eventi non strettamente religiosi – si riunivano dinanzi l'altare maggiore della loro chiesa principale o di un santuario particolarmente caro. Così possiamo vedere delibere effettuate dal Giudice in corona dinanzi agli altari delle più belle chiese medievali sarde (come testimoniato dai condaghes), o vedere il capitano delle milizie sassaresi, vincitore contro Leonardo di Alagòn, Angelo Marongio ucciso proprio mentre pregava dinanzi l'altare maggiore della cattedrale di San Nicola a Sassari (gli assassini scelsero con cura il luogo e il posto perché sapevano bene che chiunque si inginocchiava dinanzi l'altare della propria chiesa lo faceva disarmato e solo, senza accompagnamento); ancora, vediamo i canonici del reverendo capitolo turritano aspettare Giovanni Maria Angioy attorno all'altare maggiore della loro cattedrale, e lui stesso venire proprio dinanzi a quest'altare per chiamare a raccolta il popolo nell'insurrezione contro i soprusi feudali. Insomma, il “centro aggregativo”, “di raccolta” del popolo, in tempi di calamità o agitazioni era sempre ai piedi dei loro altari maggiori (per titolo e per venerazione), e non in altri luoghi. Dinanzi all'altare ogni gesto, ogni decisione, ogni presa di posizione appariva compiuta dinanzi a Dio, quasi “giustificata” e “sigillata” dall'alto, dunque “sacralizzata” a priori. E questo non poteva non avere il suo peso, in una società come quella sarda che anche nelle peggiori rivoluzioni non hai mai perso il rispetto verso Dio e la Sua Chiesa. Davanti all'altare maggiore delle cattedrali giuravano governatori e vescovi, viceré e nobili. Non vi è stato forse mai momento storico in Sardegna che non abbia visto un grande avvenimento iniziare o svolgersi ai piedi di un altare, e del crocefisso e dei santi che vi troneggiavano solenni.
Il fortissimo multiforme valore dell’altare sardo, dunque, è segno forte della grande attenzione che, crescente nei secoli, il popolo ha voluto dargli. Lo ha rivestito di molteplici funzionalità, oltre a quella liturgica, un vero “faro per la comunità” e superiore sempre agli altari minori, anche se dedicati a santi molto venerati. Dobbiamo rivendicare il valore “umano” di questi altari, che hanno visto i nostri avi, i nostri stessi genitori al momento del loro Battesimo, e durante il conferimento dei vari Sacramenti; altari che hanno visto i nostri forti presuli, i grandi vescovi sardi; e, nel caso iglesiente, addirittura un Pontefice, Giovanni Paolo II. Entrando nella cattedrale di Iglesias, egli subito si diresse verso l’altare maggiore. Quell’altare che gli iglesienti rivogliono immantinente al suo posto. L’altare, che tutti noi sardi rivogliamo. Non ci possiamo chinare dinanzi ad un muro.
Ora il tempio episcopale della gloriosa sede di Iglesias, che ha l’onore di custodire le sacre spoglie del martire Antioco dal suo antichissimo tempio di Sulci, è orbo del centro, di quel grande faro di luce, di devozione, di conforto. Non sarà un quadro – seppur di pregio – a sostituirlo, né una teoria di scranni canonicali. Iglesias rivuole il suo altare, il suo pezzo d’arte[3], il suo pezzo di Storia. Solo Cristo è Signore è Re della Storia e dell’umana società che in essa compie la divina volontà. Non poniamoci come arbitri troppo presuntuosi. Lasciamo la pace al ricco passato che ci hanno donato i nostri avi ma costruiamo con lo stesso ardore il futuro.




[1] Il riferimento è al Convegno tenuto ad Iglesias il 17 ottobre 2013 con don N. Bux e M. Derudas.
[2] Eloquente esempio che sferza, in tempi dove i commerci e le transazioni non erano facili, il dilagante pseudo-pauperismo attuale, ripieno di quell’archeologismo liturgico già condannato dal venerabile Pio XII: il Papa chiede il tessuto più pregiato per la liturgia, e non si lascia fermare da costi, lunghi viaggi commerciali o dissuasioni dottrinali.
[3] Delicato e al contempo solido esempio di scuola canoviana, l’altare maggiore rimosso dalla cattedrale di Santa Chiara era stato disegnato dal genovese Gaggini e finanziato addirittura anche dal beato Pio IX.