Davanti
“a sas iscalinas de su altare mannu”. Quante volte, fra le mura delle
chiese sarde, nelle sacrestie, si sono sentite risuonare queste parole, nelle
registrazioni di decesso, nei testamenti e oggi, in un tempo dove tutto è in
discussione, e poco resta in riflessione e meditazione, queste
parole, tolte appunto da un semplice testamento, ci devono servire. Perché?
Per un
sardo, per un fedele cattolico del grande Regno di Sardegna e Corsica, cosa
significava chiedere una sepoltura presso l’altare maggiore? E, con ancor più
umiltà, presso le scale del medesimo? Cosa si sentiva, in questo preciso punto,
che meglio conosciamo [dopo il
prezioso intervento del collega e del prof. Bux][1]del
grandioso edificio chiesastico locale? In una cattedrale immensa, come quella
di Sassari o Oristano, cosa spingeva a volere la propria sepoltura presso i
gradini dell’altare maggiore? Devozione, certo, amore per i “propri santi”,
vicinanza al punto spiritualmente più elevato della costruzione, al
punto dove Cielo e terra si toccano.
Un excursus
si rende però necessario, per comprendere come e con quali modalità la presenza
dell’altare e il suo forte simbolismo si siano evoluti in Sardegna nel corso
dei secoli, e come si sia formato il modus cogitandi del popolo riguardo
l’altare maggiore delle proprie chiese.
Sin
dalla piena età bizantina e poi giudicale si hanno riscontri documentari e
materiali (sebbene rari e non sempre spiegabili) sulla presenza di un altare
centrale, nelle chiese, dotato di un preciso apparato liturgico e legato ancora
a schemi tipici delle pratiche di culto orientali. Nelle piccole chiese, come
in quelle di grandi dimensioni, solitamente si poteva trovare un altare del tipo
“a mensa”, staccato dall’abside e occultato quasi totalmente da grandi
strutture lignee operate e arricchite da drappeggi, una sorta d’iconòstasi
ridotta ai minimi termini.
Personalmente,
ho potuto osservare de visu molte
chiese che mostravano ancora chiari i segni di una ormai scomparsa struttura
lignea ancorata al livello del gradino più alto del presbiterio (che già nel
secolo XI in Sardegna si presenta spesso sopraelevato seppur di poca altezza
rispetto ad epoche precedenti nelle quali non se ne aveva alcuno se non nei
battisteri), che alta quanto le pareti della chiesa e nelle chiese più antiche
poggiante su plutei in pietra o marmo, copriva l’intera area absidale alla
vista dei fedeli. All’interno, un altare in pietra (che nelle chiese più
piccole si riduceva quasi alle dimensioni di un’ara), costituiva il cuore
pulsante della chiesa, dove si celebrava il Sacrificio Divino al sorgere del
sole, la cui luce entrava dalle monofore (in numero variabile) disposte lungo
le pareti absidali. Non è ancora del tutto chiaro come strutture come queste
potessero convivere con i meravigliosi cicli pittorici che spesso rivestivano
le pareti absidali (da ricordare fra tanti quello della SS.ma Trinità di
Saccargia), se non ipotizzando che tali cicli servissero come strumento di
meditazione, elevazione spirituale, “istruzione” del clero e non fossero
destinati alla visione dei profani; altra ipotesi è che tali cicli siano venuti
gradualmente a sostituire le iconostasi (salvando i plutei come netto elemento di separazione tra clero
e fedeli), che certamente – seguendo la tradizione orientale cui la Sardegna
rimase legata per molto tempo anche dopo il totale rientro nell’orbita
liturgica occidentale – erano più fragili e soggette a deperimento (nonché a
sempre latenti pericoli d’incendio).
Coll’insediarsi
sempre più marcato dei vari Ordini monastici, chiamati dai Giudici dei quattro
Regni Sardi, nonché del diretto intervento di san Gregorio VII, la situazione
mutò; ci si avvicinò, infatti, a moduli sempre più romani (l’invito del papa fu
forte, quasi un ordine), e la liturgia, nella “pratica”, cambiò modalità di
espressione, mentre le devozioni popolari e il “sentimento artistico-religioso”
(se tale espressione mi è concessa) dei sardi continuavano ad essere legati, in
vari modi e in varie forme, alle antiche tradizioni bizantine (e ancora oggi
molte reminiscenze restano tenacemente legate al nostro patrimonio culturale e
folkloristico). In età tardo-giudicale, dunque, le chiese risorsero e,
distrutte o pesantemente modificate quelle paleocristiane, bizantine (delle
quali purtroppo restano molti frammenti archeologici ma pochi esempi intatti –
tra questi la chiesa rupestre di Funtana
Gutierrez e Chigizzu a Sassari,
la chiesa di San Giovanni di Sinis, il San Saturnino di Cagliari, il
Sant’Antioco dell’isola omonima o la Santa Sabina di Silanus, il Santo
Salvatore di Sinis e altri), e neoromaniche, si eressero nuovi edifici in stile
romanico di puro gusto toscano, pian piano contaminati – col passare del tempo
– da moduli lombardi e gotici di provenienza nord-italiana e francese, e poi le
straordinarie architetture pisane della SS.ma Trinità di Saccargia. Ma
l’altare, in tutti questi cambiamenti – inevitabili – seguitava a restare il
centro nevralgico delle chiese sarde. Ne sono testimonianza eloquente, fra le
tante fonti, i condaghes.
Come
sappiamo, non tutti i condaghes della Sardegna giudicale sono giunti
sino a noi. Tra i pochi superstiti, ancora si studiano (poiché fonti
inesauribili di conoscenza sull’organizzazione sociale, economica e religiosa
della Sardegna medievale), quello di San Pietro di Silki (contenente al suo
interno quello di Santa Giulia di Kitarone e quello di San Quirico di Sauren),
quello di San Nicola di Trullas, quello di San Michele di Salvennor e quello di
Santa Maria di Bonarcado. Tranne quest’ultimo, tutti sono pertinenti alla
regione del Logudoro, corrispondente all’antico Giudicato (o Regno) di Torres.
Il Condaghe di Bonarcado, invece, prende nome dall’omonimo monastero camaldolese
nell’antico Giudicato d’Arborea.
Risalenti
complessivamente al periodo compreso tra il X e il XIV secolo, i vari condaghes
sono ricchissimi di annotazioni di carattere prevalentemente economico, come
tutti sanno. Ma tra uno scambio e una vendita, una lite e una corona, s’intravedono
come piccole luci donazioni di sacre suppellettili, accenni a celebrazioni
liturgiche, acquisizioni di argento e preziosi tessuti da utilizzarsi per la
creazione di oggetti sacri da adoperarsi per l’addobbo dell’altare maggiore e
per altri oggetti liturgici (esemplare è il caso del raffinato bisso già richiesto da Nicolò IV ai
reggenti nobili dell’Isola di Sardegna per realizzare i paramenti papali[2]).
E, indirettamente, queste piccole citazioni apparentemente insignificanti,
riportano alla mente gli antichi arredi di quelle meravigliose opere
d’architettura pieno-medievale che la Sardegna vantava in gran numero: dalla
chiesa di S. Michele di Salvennor, alla maestosa basilica di Saccargia dedicata
alla Trinità, o alla famosa chiesa di San Pietro di Silki in Sassari, per
tacere della straordinaria cattedrale di Bisarcio o del superbo e insuperato
San Gavino di Torres, gioiello prezioso della storia sarda. Le fonti
dell’epoca, non troppo numerose e spesso di difficile inquadramento, non
permettono sempre un’esegesi completa, ma lasciano intravedere dettagli
interessanti ai fini del nostro intervento a questo incontro.
Nel
corso del medioevo, con la progressiva caduta dei regni giudicali, nuove
mutazioni si introdussero nelle chiese sarde. Gli ordini monastici, che per
primi avevano introdotto l’uso (di derivazione gallicana) di erigere più altari
nella chiesa per permettere a tutti i sacerdoti della comunità di poter
celebrare prima dell’ora meridiana (san Gregorio in una sua Epistola ci ricorda
di un vescovo francese che già nel VI secolo aveva fatto erigere nella sua
chiesa ben tredici altari), iniziarono ad edificare chiese sempre più
articolate, spezzando la severa monotonia delle fiancate romaniche e
romanico-gotiche (interrotte spesso solo da monofore strette come feritoie) con
piccole cappelle laterali. La definitiva presa di possesso degli aragonesi,
infine, permise all’architettura gotica iberica di fare piena irruzione nel
mondo sardo, moltiplicando nelle chiese le cappelle e riorganizzando gli spazi
delle medesime, e in ogni angolo spesso trovava posto una semplice mensa
d’altare ormai ancorata alla parete e sovrastata non più da pitture a fresco né
illuminata da monofore ma impreziosita da retabli dagli scomparti variamente
articolati, che nel corso del XVI secolo giunsero a dimensioni imponenti, come
testimonia il superbo esempio del retablo della cappella palatina di Ardara,
risalente al primo quarto del ‘500.
In
tutto questo sommovimento degli antichi ordinamenti statali ed ecclesiastici (e
specie con il rovinoso lento dispersi alla fine del ‘400 delle comunità
monastiche a favore di quelle domenicane, francescane o agostiniane), si ebbe
tuttavia un nuovo rifiorimento di “attenzioni artistiche” verso l’altare
maggiore. Le nuove influenze catalane unite alla corrente architettonica
gesuitica, diffusasi in tutta la Sardegna in pochissimi anni grazie all’opera
dei grandi architetti e maestri gesuiti chiamati a Sassari dai loro confratelli
per l’erezione del Collegio di Studi di Sassari (dal 1559/1560) e della chiesa
con Casa Professa di Gesù-Maria (lavori conclusi nel 1627), ebbe un ruolo
decisivo, che ha sempre meritato studi particolareggiati. Tutte le nuove
ventate culturali presenti nell’Isola, che portarono importanti rinnovamenti
nelle chiese, in modo diretto o meno, passarono – da questo momento - per “vie
gesuitiche”. I modesti altari laterali e le piatte tavole catalane lentamente
svanirono (con grande perdita per la storia dell’arte in Sardegna) e,
specialmente nelle chiese più ricche, l’ingegno delle maestranze d’ascia e
della pietra, dei doratori, degli architetti si lasciò andare alle fantasie
barocche più sfrenate. Immensi retabli, specialmente nel Capo di Sopra,
occuparono l’intera parete di fondo del presbiterio, raggiungendo – come nel
caso dei retabli della Madonna del Rosario, di Sant’Antonio abate o di San
Pietro di Silki in Sassari (per citarne alcuni fra quelli ancora esistenti)
altezze considerevoli, variabili fra i 10 e i 14 metri, in un tripudio di
dorature, volute, racemi, angeli, nicchie finemente intagliate, santi dalle
vesti dorate e damaschinate. È il trionfo del barocco che, in piena ottica
controriformistica, per esaltare ancor più il Santo Sacrificio dell’Altare e
rivolgere il cuore del fedele alla Divina Bellezza, non lesina su effetti quasi
teatrali, orientati al rapimento visivo del pio credente, che resta incantato
di fronte a queste meravigliose espressioni d’arte che vogliono elevare lo
spirito e adombrare già in terra le bellezze del Paradiso. In questo momento si
risveglia l’attenzione – comunque mai sopita – dei sardi verso gli altari
maggiori delle chiese, specie le parrocchiali e gli oratori delle confraternite,
perché un ricco e grande altare maggiore iniziava anche a diventare simbolo di
prestigio sociale e, spesso, ostentazione di ricchezza (specie da parte di
Capitoli metropolitani o di Confraternite). Da studi da me condotti in diversi
archivi, ho ricavato che molte delle notizie documentarie che ora s’hanno sugli
altari maggiori più belli della Sardegna del Sei e Settecento procedono da lasciti testamentari e contratti di
prestazione d’opera da parte di confratelli; laici dunque, o da contratti fra i
vari Capitoli e artisti privati. Come vediamo è ancora una volta il popolo (al
contrario dei vescovi, i canonici erano sempre del posto) che, come nel
medioevo offriva argento e pregiati tessuti per i monasteri vallombrosani o
camaldolesi, così ora offriva denaro e rendite per la costruzione di così
imponenti opere in oratori dedicati alla Vergine o nelle loro chiese
parrocchiali, ancora spesso tenacemente dedicate a santi provenienti dal
menologio orientale e mai abbandonati nella venerazione. Artisticamente, nemmeno
la moderazione classicista importata in Sardegna da artisti della Penisola o le
stravaganti ma equilibrate (almeno nelle dimensioni) creazioni del delicato
barocchetto piemontese riuscirono a tenere sotto controllo le mirabolanti
creazioni degli artisti e le idee dei committenti. Al contrario, le innovative
e fantasiose maestranze svizzere (del Ticino, della Val d’Intelvi, della
cosiddetta “Area dei laghi”), giunte per via gesuitica nel tardo ‘600, unendosi
alle fantasie iberiche, sviluppavano e davano sostegno anch’esse a creazioni
sempre più belle ma anche più esasperate e, come accennato, ostentate.
Per
contro, il Capo di Sotto, iniziò a commissionare altari in marmi pregiati nelle
più quotate botteghe liguri, creando quasi una spaccatura: il Nord era ancora
spagnoleggiante, con rapide incursioni italiane e una discreta ma radicata
presenza ticinese, mentre il Sud iniziava ad essere più aggiornato, libero in
buona parte dai retabli iberici e aperto alle nuove costruzioni in marmo, più
durevoli e pregiate (se non per impatto visivo almeno per materiale). Queste
soluzioni presero piede lentamente in tutta l’Isola e alla fine del ‘700 si
vedevano solo nelle piccole parrocchiali lavorare gli anziani intagliatori,
creando quei pochi elementi che costituiscono gli ultimi esiti della
retablistica di stampo iberico in Sardegna. Nelle cattedrali e nelle chiese più
importanti l’altare maggiore si rinnova: tolte le vecchie ancone lignee, si
commissionano straordinari altari in marmo, dai paliotti multicolore, che abbandonano
definitivamente le vecchie architetture barocche e rococò per un temperato
classicismo (anche se a volte venato di discreta esuberanza virtuosistica
nell’ornato). Né è esempio il mirabile e singolare altare del Santissimo
Sacramento commissionato dal vescovo (e sommo letterato e teologo) Pietro
Bianco per la sua cattedrale di Alghero, perfetto esempio di neoclassicismo,
severo, composto, forse algido ma indubbiamente singolare. Mi pare un esempio
perfetto per aprire il XIX secolo. Nell’800 la situazione si stabilizza
definitivamente: gli altari delle cattedrali si fermano, non mutano più forma.
E così rimarranno in buona parte sino alle discusse applicazioni di certe
distorte visioni delle imponenti Encicliche del venerabile Pio XII e dei Decreti
del Concilio Vaticano II, specialmente della preziosa Mediator Dei (1947) e del tanto
discusso Sacrosanctum Concilium
(1963).
Alla
luce di quanto esposto, risalta anzitutto la grande attenzione e il grande
movimento che i sardi, ecclesiastici e laici, facevano attorno alle loro
chiese, quasi gareggiando per abbellirne gli altari e specialmente quello
maggiore. Nonostante le crisi, dovute ora alle guerre connesse alle varie
dominazioni susseguitesi, ora alle pestilenze e carestie, nessuna persona nobile
o benestante rinunciò mai a donare parte della propria eredità o qualche
lascito per l’abbellimento dell’altare maggiore di questa o quell’altra chiesa.
Prova ne sia, nel caso iglesiente, dei numerosi rifacimenti dell’altare
maggiore, dovuti alla volontà del clero locale di dare più lustro e prestigio
alla propria cattedrale e al pio desiderio del popolo di avere una sede episcopale
decorosa e degna, da vantare con orgoglio. La devozione ai nostri santi più
cari, infine, spingeva sempre a chiedere – da parte dei più ricchi o di
sacerdoti o nobili – la sepoltura presso l’altare maggiore, nonostante i
ripetuti divieti in materia da parte dei Sacri Canoni e dei vescovi (specie di
quelli piemontesi), che mal vedevano la radicata consuetudine. Attorno
all’altare maggiore della cattedrale di Iglesias sono sepolte molte persone, e
per far spazio a queste, molte altre sepolture si saranno tolte nel corso degli
anni. La fede e la devozione, sincere e autentiche, di persone che non
scherzavano certo quando si trattava di decidere la sede ultima dove il corpo,
dopo la propria morte, avrebbe aspettato la resurrezione, spingevano spesso a
chiedere la sepoltura presso l’altare maggiore o ai piedi delle scalinate che
gl’antistanno (nelle tombe delle cappelle laterali o nelle cripte si
seppellivano solo persone aventi diritto di giuspatronato o appartenenti ad una
precisa categoria – nel caso della cattedrale di Iglesias il carnero dei
canonici si trova sotto la navata centrale). Rafforzava questa pia volontà la
credenza che presso l’altare maggiore, l’unico delle chiese consacrato e
officiato dalle più alte cariche ecclesiastiche, dove offrivano il Divin
Sacrificio i successori degli apostoli durante i loro solenni pontificali,
contribuisse a rendere più vicina l’Anima del defunto a Dio e al punto della
chiesa a Lui più sacro. Non a caso, il secondo luogo scelto per le sepolture
dei più abbienti era la cappella del Santissimo Sacramento: trovarsi anche da
morti ai piedi del Signore, si presentava come una fonte di “sicurezza” e
“salvezza”, e così era per l’altare maggiore, che assurgeva al ruolo di punto
privilegiato e primo centro liturgico e devozionale per ogni fedele. Che questa
connessione dell’altare maggiore con le sepolture fosse radicata in Sardegna
fin dall’età giudicale lo conferma l’archeologia: durante i restauri di talune
chiese risalenti all’XI o al XII secolo, si sono trovate – esternamente –
disposte a raggiera attorno all’abside (e indirettamente all’altare) e solo lì
– numerose sepolture. Le persone avevano tutte il capo rivolto verso Oriente,
così come il celebrante all’altare, e i fedeli - vivi - dentro l’edificio. Questa simbologia evidentemente
orientale, si è mantenuta, con qualche evoluzione, anche nei secoli seguenti,
che come abbiamo visto tante cose hanno cambiato nelle consuetudini liturgiche
sarde.
Tuttavia,
l'altare maggiore delle chiese certo non era solo destinato a fare da “scorta”
ai fedeli defunti. Fin dal medioevo, era centro di raccolta e di unione delle
popolazioni dei vari centri: dalle curatorie giudicali sino alle comunità
recenti, tutti gli abitanti – anche per eventi non strettamente religiosi – si
riunivano dinanzi l'altare maggiore della loro chiesa principale o di un
santuario particolarmente caro. Così possiamo vedere delibere effettuate dal
Giudice in corona dinanzi agli altari delle più belle chiese medievali
sarde (come testimoniato dai condaghes), o vedere il capitano delle milizie
sassaresi, vincitore contro Leonardo di Alagòn, Angelo Marongio ucciso proprio
mentre pregava dinanzi l'altare maggiore della cattedrale di San Nicola a
Sassari (gli assassini scelsero con cura il luogo e il posto perché sapevano
bene che chiunque si inginocchiava dinanzi l'altare della propria chiesa lo
faceva disarmato e solo, senza accompagnamento); ancora, vediamo i canonici del
reverendo capitolo turritano aspettare Giovanni Maria Angioy attorno all'altare
maggiore della loro cattedrale, e lui stesso venire proprio dinanzi a
quest'altare per chiamare a raccolta il popolo nell'insurrezione contro i soprusi
feudali. Insomma, il “centro aggregativo”, “di raccolta” del popolo, in tempi
di calamità o agitazioni era sempre ai piedi dei loro altari maggiori (per
titolo e per venerazione), e non in altri luoghi. Dinanzi all'altare ogni
gesto, ogni decisione, ogni presa di posizione appariva compiuta dinanzi a Dio,
quasi “giustificata” e “sigillata” dall'alto, dunque “sacralizzata” a priori. E
questo non poteva non avere il suo peso, in una società come quella sarda che
anche nelle peggiori rivoluzioni non hai mai perso il rispetto verso Dio e la
Sua Chiesa. Davanti all'altare maggiore delle cattedrali giuravano governatori
e vescovi, viceré e nobili. Non vi è stato forse mai momento storico in
Sardegna che non abbia visto un grande avvenimento iniziare o svolgersi ai
piedi di un altare, e del crocefisso e dei santi che vi troneggiavano solenni.
Il
fortissimo multiforme valore
dell’altare sardo, dunque, è segno forte della grande attenzione che, crescente
nei secoli, il popolo ha voluto dargli. Lo ha rivestito di molteplici
funzionalità, oltre a quella liturgica, un vero “faro per la comunità” e
superiore sempre agli altari minori, anche se dedicati a santi molto venerati. Dobbiamo
rivendicare il valore “umano” di questi altari, che hanno visto i nostri avi, i
nostri stessi genitori al momento del loro Battesimo, e durante il conferimento
dei vari Sacramenti; altari che hanno visto i nostri forti presuli, i grandi
vescovi sardi; e, nel caso iglesiente, addirittura un Pontefice, Giovanni Paolo
II. Entrando nella cattedrale di Iglesias, egli subito si diresse verso
l’altare maggiore. Quell’altare che gli iglesienti rivogliono immantinente al
suo posto. L’altare, che tutti noi sardi rivogliamo. Non ci possiamo chinare
dinanzi ad un muro.
Ora il
tempio episcopale della gloriosa sede di Iglesias, che ha l’onore di custodire
le sacre spoglie del martire Antioco dal suo antichissimo tempio di Sulci, è
orbo del centro, di quel grande faro di luce, di devozione, di conforto. Non
sarà un quadro – seppur di pregio – a sostituirlo, né una teoria di scranni
canonicali. Iglesias rivuole il suo altare, il suo pezzo d’arte[3],
il suo pezzo di Storia. Solo Cristo è Signore è Re della Storia e dell’umana
società che in essa compie la divina volontà. Non poniamoci come arbitri troppo
presuntuosi. Lasciamo la pace al ricco passato che ci hanno donato i nostri avi
ma costruiamo con lo stesso ardore il futuro.
[1]
Il riferimento è al Convegno tenuto ad Iglesias il 17 ottobre 2013 con don N. Bux
e M. Derudas.
[2]
Eloquente esempio che sferza, in
tempi dove i commerci e le transazioni non erano facili, il dilagante
pseudo-pauperismo attuale, ripieno di quell’archeologismo liturgico già
condannato dal venerabile Pio XII: il Papa chiede il tessuto più pregiato per
la liturgia, e non si lascia fermare da costi, lunghi viaggi commerciali o
dissuasioni dottrinali.
[3]
Delicato e al contempo solido esempio di scuola canoviana, l’altare maggiore
rimosso dalla cattedrale di Santa Chiara era stato disegnato dal genovese
Gaggini e finanziato addirittura anche dal beato Pio IX.