Retablo maggiore di Ardara
Il retablo maggiore della chiesa medievale del borgo di
Ardara, dedicata a Nostra Signora del Regno e un tempo cappella palatina dei
sovrani di Torres (sino alla fine del XIII secolo), è una delle opere del
genere più indicative del ‘500 sardo. Questo scritto, tuttavia, non intende
soffermarsi sulle controverse attribuzioni dell’opera né su sulla storia
materiale del manufatto ma sul cospicuo corredo teologico/agiografico che
guarnisce raffinatamente il retablo, rendendolo per bellezza e ricchezza
un’autentica rarità nel panorama artistico dell’epoca.
Enrico Brunelli, nel primo ‘900, pur riconoscendone il
valore, diede al retablo di Ardara una valenza meramente “decorativa”,[1]non
notando forse il complesso gioco mistagogico delle scene e dei personaggi
raffigurati. Altri, invece, pur notando un legame fra i vari santi e le scene
sacre, troppo riduttivamente li considerarono come un grande mosaico
raffigurante parte dei quindici Misteri
del Rosario (Gloriosi e Gaudiosi) contornato da figure di profeti, santi tra i
più venerati dal popolo o dal committente e altri episodi tratti dai racconti
apocrifi sulla vita della Madonna. Come si nota, dunque, non vi è un’apparente
legame fra i vari gruppi né fra molti dei personaggi. Ma già W. Paris ha notato
come in realtà ci si trovi davanti ad “un’epopea
di natura biblica, preannunciata nell’Antico Testamento dai patriarchi e dai profeti del popolo di
Israele e ripresa poi nel Nuovo Testamento con la realizzazione delle profezie messianiche […]”.[2]Solo
uno sguardo approfondito, dunque, permette di cogliere il filo invisibile che
lega ogni elemento del maestoso polittico e il suo profondo simbolismo, che
iniziò a permeare l’ars liturgica e
paraliturgica dall’età carolingia sino al tempo del grande Innocenzo III e al
suo De Sacro Altaris Mysterio.[3]
Tutto, nel retablo così come nella liturgia cattolica, ruota
attorno alla mensa dell’altare, simbolo di Cristo, sul quale quotidianamente si
rinnova in modo incruento il Sacrificio cruento del Golgota. Per l’altare
eucaristico,[4] dunque,
come sua “corona”, si erge la scorta imponente del retablo, con la Vergine del
Regno al centro e trionfanti i grandi dell’Antica Legge che ha trovato
compimento nella Nuova, come scrive il filosofo e teologo san Tommaso d’Aquino
(1225-1274): “Et antiquum documentum /
novo cedat Ritui”.[5]
Nel tabernacolo, vero centro focale della grande macchina
d’altare e custodia del Santissimo
Sacramento, risaltano tre figure: la prima, nel pannello frontale che funge da
“sacro prospetto” che cela al popolo il Corpo di Cristo, è raffigurato un Gesù
doloroso nel sepolcro, non statico come in molti altri casi simili, ma più
umano, accasciato e morbido, seduto sulla lastra di chiusura del sepolcro
(raffigurato secondo lo schema del sarcofago classico), posta trasversalmente.
Mostra le Piaghe delle mani, della fronte coronata e del Costato, ma cela le
gambe perché nascoste nel sepolcro. Alle sue spalle si staglia in primo piano
la croce col cartiglio, la lancia di Longino, la canna e i flagelli, oggetti
della Passione. L’iconografia appare ad un primo approccio singolare, poiché il
Cristo in pietà è di solito rigido
mentre emerge dal sepolcro (e comunissimo in area sardo-catalana), con le braccia
incrociate, spesso affiancato da angeli o dalle pie donne mirofore.
In realtà, la scena potrebbe verosimilmente essere una
riproduzione pittorica della famosa “Messa
di san Gregorio magno”, soggetto dal quale forse deriva l’uso di accostare
il Cristo patiens al Tabernacolo. Secondo
la pia tradizione, il grande pontefice (uno dei quattro massimi Dottori della
Chiesa d’Occidente), durante la celebrazione della Messa espresse a Dio il suo
forte desiderio di rendere la Presenza Reale di Cristo nell’Ostia visibile
sensibilmente, così da confutare i dubbi di un fedele presente. La preghiera
del santo fu esaudita, e apparve il Signore nel sepolcro, mostrante le Sacre
Piaghe, vivo, circondato dagli strumenti della Passione. Il soggetto è stato
tradotto in pittura innumerevoli volte: pensiamo al famoso dipinto di H. Bosch
custodito al Museo del Prado (1510 ca.), dove il Cristo emerge dal sepolcro con
le braccia incrociate, o alla celebre opera di A. Ysenbrandt, dove Cristo
solleva invece le mani piagate verso il pontefice in ginocchio dinanzi
all’altare, scortato anche qui come ad Ardara dalla croce recante appesi o
appoggiati gli strumenti della Passione. In altri casi, il Cristo appare
risorto e trionfante, ma in percentuale si trovano molti meno esempi.
Ora, nel nostro caso – come tutti vediamo – manca la figura
di san Gregorio, perciò il Cristo in
pietà non può essere associato direttamente al soggetto della Messa di san Gregorio. Tuttavia, a
svolgere le veci di quest’ultimo, era ogni mattina il celebrante, che poteva
godere – seppur solo in pittura – la stessa immagine del Cristo immolato e
trionfante che ebbe il santo Dottore, mentre celebrava il Sacrificio della
Messa (il tema era diffusissimo nel medioevo e molto apprezzato in ambito
spirituale e devozionale).[6]La
maggioranza dei tabernacoli o comunque dei pannelli centrali dei polittici
sardi di ispirazione o fattura iberica del XV e XVI secolo, come evidenziò già
G. Goddard-King,[7]presenta
la scena della “Messa di San Gregorio”
o, sarebbe meglio dire, del “Cristo di
San Gregorio”. La diffusione di questa soluzione iconografica era dunque
pressoché universale nel mondo artistico sardo-catalano del tempo (e non solo).
Da questo cruciale nodo cristocentrico,[8]parte
tutto il corollario di scene mariane e figure di santi che si sviluppano
attorno all’altare. Abbiamo fatto cenno, in precedenza, di due figure che
occupano i pannelli laterali del tabernacolo: San Nicola di Bari e San
Cosma (o Damiano). Il primo, a sinistra, è un santo venerato in Sardegna da
tempo immemorabile, nonché patrono e titolare della cattedrale a Sassari. La
sua presenza è dunque un forte e deciso richiamo alla chiesa metropolitana cui
le diocesi soppresse nel 1503 da Giulio II erano annesse (la cappella di Ardara
si erige sugli antichi confini delle scomparse diocesi di Bisarcio e Sorres)
alla quale la nostra cappella palatina apparteneva).[9]Sul
San Cosma, raffigurato con una scatola d’unguenti medicinali e la spatolina per
applicarli, nulla vi è da aggiungere se non che la sua presenza è collegata
direttamente al vicino scomparto col santo compagno Damiano (raffigurato mentre
esamina un’ampolla d’urine). Il San Nicola si trova a sinistra; il San Cosma a
destra vicino alla ben più ampia tavola di San Damiano.
Sul perché i santi anargiri[10]siano
stati raffigurati sulla grande fascia di base del retablo non abbiamo prove
sicure né motivazioni certe, anche se una probabile potrebbe essere la
seguente: non si voleva né doveva interrompere il grande cordone delle sezioni
superiori che, partendo dal santo Patriarca Mosé, arrivavano sino alla Nascita
di Maria e alla sua Assunzione, passando per tutti i momenti cruciali della
vita terrena di Gesù sino all’Ascensione e alla Discesa dello Spirito Santo.
Solo piccole tavole esterne avrebbero accolto altri santi popolari. Al
contempo, non si volevano tralasciare i due santi medici taumaturghi, il cui
culto – antichissimo in Sardegna quanto quello di San Nicola – era (ed è)
sentito profondamente dal popolo, in un tempo dove l’ars medica non si era ancora sviluppata come avrebbe fatto – con
passi da gigante – nel corso del XVI secolo.[11]
Alla base, oltre i santi citati, si vedono negli scomparti a
sinistra Santo Stefano protomartire e
San Martino di Tours che divide il
mantello con un povero; a destra, San
Damiano e San Gavino martire di
Torres.
Sulla presenza del Santo Stefano appena vicino a quella di
Cristo, si deve dare la stessa spiegazione che si da della sua presenza
liturgica nel martirologio cattolico successiva, immediatamente, alla Natività
del Signore. Stefano, uno dei sette diaconi della Chiesa nascente, è ricordato
come protomartire per aver subito il martirio per Cristo, avendolo confessato
per primo come Dio davanti agli ebrei ostili di Gerusalemme. Seduto su un trono
con lo schienale rivestito da ricco panno, reca la palma del martirio e il
libro dei Vangeli sormontato da pietre, a ricordo della sua morte per lapidazione
(lo ricorda anche la classica pietra “posata” sul capo). La dalmatica che
indossa, nel disegno, è tipica del pieno medioevo; larga, morbida, fluente e
discinta, aperta alla base con ampi spacchi ma già con maniche strette e munita
di colletto rivoltato. Decorata e tendente all’oro-rossastro, a ricordare forse
le glorie del protomartirio, lascia intravedere il camice bianco sottostante e l’amitto
ben avvolto nel collo.[12]Il
martire Stefano, dunque, in questa precisa posizione nel maestoso altare,
ricorda ai diaconi che servono al medesimo la loro grande dignità di servizio
(il diaconato nasce per questo scopo), e al contempo ricorda che il santo fu il
primo a seguire Cristo nella sofferenza, nella morte e nella gloria. Per
questo, la Chiesa ricorda la sua nascita al Cielo subito dopo la Natività del
Signore, e vicino alla festa dei Santi Innocenti[13]e
degli altri Comites Christi, i primi
che seguirono Cristo, ognuno a suo modo, dopo la sua venuta nel mondo.[14]
I lati estremi, coi due santi a cavallo, sono sempre di
facile lettura: il santo confessore Martino vescovo di Tours, prima cavaliere
poi vescovo, è raffigurato (a sinistra) nel celebre episodio che lo vede
dividere il suo ricco mantello con un povero mendicante. Il santo ha avuto un
culto vastissimo nel medioevo sardo, che l’ha ricevuto non dalla cultura
orientale ma per influenza romano-gallicana del IV-V secolo.[15]Nella
zona del sassarese, e di Ardara stessa, le chiese a lui dedicate erano
moltissime. Alcune di queste, ancor oggi esistenti, detengono il titolo di
parrocchia (come nel caso di Bessude).[16]San
Gavino, invece, sempre a cavallo e col vessillo di Torres in mano, fa da contraltare
a Martino, in ogni senso: devozionale ed estetico. Il lato destro, infatti, si
chiude col glorioso patrono di Torres, soldato martirizzato in tarda età romana
nella città di Torres, patrono del Regno e della cittadina omonima (che pure a
quel tempo era decaduta da secoli), nonché della Città e della Municipalità di
Sassari e degli stessi giudici turritani. In questo caso il santo martire non è
accompagnato dai “colleghi” di martirio: il presbitero Proto e il diacono
Gianuario. [17]
Le due tavole che fungevano da porte, alle due estremità del
retablo, e conducevano alla raffinata abside e allo spazio che si era venuto a
creare tra questa e il grande polittico, raffiguravano San Pietro apostolo e
San Paolo apostolo (rispettivamente in cornu
Evangeli e in cornu Epistolae).
Poste come due testate angolari, le figure della Pietra sulla quale Cristo ha fondato la sua Chiesa,[18]e
quella dell’Apostolo delle genti, raffigurano i due capisaldi sulla quale è
nata la Chiesa di Roma, la Chiesa Cattolica. Non potevano dunque non fungere da
base, e scorta, la somma figura del primo pontefice e del grande apostolo per
elezione che hanno bagnato la terra di Roma col sangue del martirio, pietre
fondanti della Chiesa.
Qua termina la prima grande fascia della base, che idealmente
“sorregge” il grande ciclo mariano che contorna il meraviglioso simulacro della
Vergine del Regno che troneggia maestoso nella sua nicchia centrale.
***
La Natività della
Vergine Maria occupa il grande pannello centrale, in alto, al centro. La
nascita della Madre di Dio è l’”aurora della Redenzione”, il primo soffio di
Salvezza verso l’umanità schiava del peccato. Per questo tale solennità, di
origine orientale e molto antica, è sempre stata fra le principali del
calendario liturgico cristiano (solo della Madonna e di san Giovanni il battista
la Chiesa ricorda infatti il giorno natalizio).[19]La
scena mostra sant’Anna che riposa sotto una coltre purpurea (dal significato
regale) circondata di ancelle (tra le quali una negra), tutte recanti strumenti
utili per il parto, come brocche e catini d’acqua calda, panni caldi, ecc. La
levatrice, affiancata da una serva con la culla piena di morbide lenzuola,
tiene fra le braccia Maria. La donna è delicatamente seduta; sant’Anna volge
verso di lei lo sguardo stanco con la mano sinistra aperta verso la Figlia in
segno di grande venerazione; san Gioacchino – sereno e pacifico – sta ai piedi
del letto di Anna e anche lui rivolge un saluto alla Nuova Eva, sollevando la
mano sinistra.[20]La scena
niente ha di particolare se non i dettagli delle mani: i santi genitori
salutano Maria, ma con la sinistra e non con la destra, che sarà “sacralizzata”
solo dopo l’Incarnazione e nascita di Gesù.
Immediatamente sotto, troviamo la grande tavola con
l’Annunciazione, desunta – chiaramente – dall’analogo soggetto inciso da A.
Dürer nella sua Piccola Passione (1511),
seppur con qualche leggera modifica. Un composto e leggermente compassato
arcangelo Gabriele, regge con la sinistra una sorta di bordone con un cartiglio
avvolto (ornato delle parole AVE GRACIA PLENA – sic)[21]mentre
con la destra si avvicina a Maria, tenendo l’indice sollevato (in Dürer la
destra è benedicente). Il dito pare indicare ad un tempo e il cartiglio con le
parole dell’Angelo e la Colomba dello Spirito Santo che discende, come
“planando”, su alcuni raggi che terminano poco oltre la sommità dello scettro,
in piccole stelle che toccano il nimbo dorato della Vergine. L’alcova, simile
ad un baldacchino, che in Dürer sovrasta Maria, qua è posta in secondo piano,
lontana verso il lato destro.[22]Oltre
alle raffinate vesti dell’arcangelo e della Madonna, è singolare e degno di
attenzione un altro dettaglio, che il pittore d’Ardara prende sì dal maestro
tedesco, ma con più enfasi: il libro che Maria legge, infatti, mentre è
nascosto nell’incisione ispiratrice, è ben mostrato nel nostro dipinto e
addirittura raddoppiato (in un leggio più alto a destra s’intravede un secondo
testo). In un tempo in cui la figura della donna (anche se la Vergine Maria) e
del libro, simbolo di cultura, e oggetto ancora raro e costoso, non erano
troppo vicine – specie in ambito sardo, il nostro Maestro rivaluta tutta la
delicata questione, e non teme di mostrare alla venerazione la Virgo sapiens delle Litanie che, dalla
Santa Casa di Loreto (che è poi quella in cui si ebbe l’Annunciazione), proprio
in quel periodo iniziavano a diffondersi nell’orbe cattolico.[23]I
testi che s’intravedono scritti sulle pagine dei due libri non sono anch’essi casuali:
spicca quello del libro superiore, con le parole lucane del “si” di Maria (contratte e abbreviate
all’uso medievale): “Ecce ancilla Domini.
Fiat mihi secundum verbum tuum”.
Il proseguimento più ovvio è dunque quello delle due tavole
che stanno immediatamente sotto, secondo una direttrice discendente: “La Natività” e “L’adorazione dei magi”. Nella prima, la semplice scena
dell’adorazione di Gesù da parte di Maria Santissima e san Giuseppe, è
movimentata da scene di angeli esultanti poste dietro il Bimbo, e dallo sfondo
architettonico (rovine di un edificio e una sorta di greppia-sarcofago davanti
alla quale si mostrano il bue e l’asino). In alto, a sinistra, spicca un
piccolo cameo con un angelo dalle fluttuanti vesti rosacee che invita i pastori
a non temere (con l’ausilio del solito cartiglio) e a muoversi senza paura per
adorare il Salvatore. La presenza della scena dentro le rovine di un edificio e
non in una grotta, come scritto nel racconto evangelico di san Luca, può avere,
oltre che un mero significato estetico, anche allegorico: l’edificio distrutto
è quello della vecchia Alleanza, che Cristo è venuto a completare e condurre a
termine. Colpisce anche l’assenza dell’aureola per San Giuseppe, che pure la
mostra nella scena seguente (Adorazione
dei magi), data dall’ancora poco diffuso radicamento del culto verso questo
santo, che iniziò a farsi strada solo lentamente nel corso del medioevo, e si
sviluppò organicamente a partire dal ‘600, grazie alla sensibilità carmelitana
(in particolare grazie alla mistica santa Teresa d’Avila) e alla ulteriore
propaganda di questo culto che fece la Compagnia di Gesù.[24]Degno
di nota è inoltre il bastone, con la parte alta che si avviluppa su sé stessa
in un elegante voluta, quasi somigliante ad un pastorale, come se si volesse
indicare nel ruolo di guida e protettore che san Giuseppe fu per la Sacra
Famiglia una sorta di vescovo ante
litteram.
L’Adorazione dei magi è
un degno gioiello che subito segue la scena precedente, spostando la direttrice
visiva verso il basso. San Giuseppe – a sinistra - osserva assorto e pensoso,
con un paio di occhiali (dettaglio colto e curioso), la prodigiosa stella che
ha condotto sino alla grotta (che appare ancora come un edificio superbo ma
semirovinato e dove ancora stazionano l’asino e il bue), i tre re venuti da
lontane terre, abbigliati sontuosamente come veri principi rinascimentali. Il
primo, deposta la sua corona davanti al Re dei re,[25]gli
porge una coppa d’oro, assai simile nella forma ad un calice medievale, molto
ampia ma apparentemente vuota. Il secondo, in piedi dietro il primo, solleva la
mano alla testa per levarsi la corona, mentre sorregge con la sinistra il suo
dono, posto in un raffinato contenitore simile ad un reliquiario o ad un ostensorio
gotico. Immediatamente sopra il suo capo, passano i raggi della stella[26]che,
dall’alto della composizione, giungono quasi sino alla fronte del Bimbo, come
per indicare che è Egli la vera Stella da seguire, e creando una diagonale
discendente che, appunto, collega direttamente Cristo alla stella. Il terzo re,
posto in fondo, non si è ancora levato la corona e sostiene il suo dono con la
mano destra, contenuto in una sorta di pisside. In ultimo piano, discutono fra
loro alcuni accompagnatori, rendendo la scena degna d’essere ambientata in una
delle migliori corti principesche dell’epoca. Un dettaglio piccolo, semplice
eppure così significativo per l’arte è la piccola “miniatura” che orna l’angolo
inferiore destro, con un piccolo topo di campagna e una lumaca. Il significato
è oscuro? Oppure era vivo per l’autore e i contemporanei e morto per noi? Non
possiamo dirlo ma è comunque un elemento singolare, da non dimenticare nello
studio dell’arte iconografica sarda.
Siamo alla Dormitio
Virginis: Maria Santissima terminato il corso della sua vita terrena si “addormenta nel Signore”. Non vogliamo
entrare, in questa sede, entro argomentazioni teologiche di natura puramente
teoretica perché non vi troveremmo risposta, tranne quella dogmatica e quindi
definitiva del santo Pontefice Pio XII: «Pertanto, dopo avere innalzato ancora a Dio supplici
istanze, e avere invocato la luce dello Spirito di Verità, a gloria di Dio
onnipotente, che ha riversato in Maria vergine la sua speciale benevolenza a
onore del suo Figlio, Re immortale dei secoli e vincitore del peccato e della
morte, a maggior gloria della sua augusta Madre e a gioia ed esultanza di tutta
la chiesa, per l'autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei santi apostoli
Pietro e Paolo e Nostra, pronunziamo, dichiariamo e definiamo essere Dogma da
Dio rivelato che: l'Immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il
corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo».[27] Straordinaria per la complessità e la
raffinatezza liturgica è comunque questa pittura, posta significativamente al
centro dell’opera, chiasticamente proprio sotto la Natività della stessa Maria e sopra la nicchia che custodisce il
pregiato simulacro della Madonna del Regno. La scena raffigura quella che oggi
chiamiamo Assunzione ma che, un tempo, era la Dormizione della Beata Vergine Maria (la sua esenzione dal peccato
originale la ha conseguentemente esclusa dalla morte che è conseguenza del
medesimo – ecco perché la Chiesa non ha mai accostato a Maria le parole peccato
e morte).[28]La
Vergine siede su un letto con un abito purpureo, mentre san Giovanni le porge
un cero acceso che ella riceve con la mano destra (l’uso di recare ai moribondi
un cero benedetto acceso è antichissimo ed è rimasto in uso sino a tempi
recenti). Fra gli apostoli, è riconoscibile san Pietro che asperge la Vergine
con un aspersorio composto da un manico recante in cima una sorta di spugna
intrisa nell’acqua benedetta, contenuta nel secchiello che un altro apostolo
(Andrea?) tiene alla sua destra. Pietro reca anche un libretto che può avere
duplice valenza: può essere visto come il libro delle Scritture, ma anche –
essendo stato raffigurato il santo come un sacerdote che si reca al capezzale
d’un ammalato in procinto di lasciare questo mondo – può essere un libro di
orazioni. Ai piedi del letto, coperto da una finissima coltre,[29]in ginocchio, appare forse
san Giacomo maggiore, recante una grande ferula e intento a leggere – assieme
ad un altro discepolo – il versetto tratto dal salmo CXIII (IN EXITU ISRAEL DE
AEGYPTO DOM[U]S […]). Il versetto allude alla gioia dell’uscita degli ebrei
dalla cattività d’Egitto e rimanda qua all’uscita della Vergine da questo mondo
terreno, paragonando la sua gioia a quella degli esuli che ritornano gioiosi
alla loro terra. Assieme a lui legge un altro discepolo, ed entrambi si aiutano
con degli occhialini, un particolare che non è raro in pittura, ma è singolare
nel nostro caso. Dietro i due, al capezzale della Vergine, un altro apostolo
regge un delicato turibolo dal disegno gotico.
Tutti questi elementi liturgici che abbiamo
voluto sottolineare, sono di grande importanza. È vero che la scena è ripresa
quasi alla lettera dall’omonima incisione di M. Schonghauer, ma in entrambi i
casi la testimonianza iconografica paraliturgica è davvero preziosa, giacché
del rito di accompagnamento degli infermi al trapasso finale non si hanno
conoscenze storiche molto approfondite. Qualche traccia emerge in Germania in
età carolingia e anche dopo. Abbiamo per certa la benedizione della stanza da
parte del sacerdote, il recare lumi accesi, la croce e l’incenso (forse come
accompagnamento se si conduceva anche il Viatico oppure per solennizzare
l’utilizzo dei Santi Oli per ungere le parti del corpo – come in san Giacomo V,
14).[30]
Termina qui il retablo di Ardara? No. Prosegue
illustrando le orme del Figlio di Maria, Gesù. Questi si mostra, come visto, a
sinistra, dalla parte del Vangelo nella sua Natività; a destra, dalla parte
dell’Epistola, si mostra nel sommo Mistero della Risurrezione che, includendo silenziosamente anche quello della
Passione e Morte (ogni giorno rinnovato sull’Altare/Golgota - che fa da ponte
fra le due sezioni), trionfa con tutta la sua solennità. Un Cristo dai tratti
muscolari scolpiti, segno del “corpo perfetto”, del “più bello tra i figli degli uomini” come canta la Scrittura, sorge
solenne dal sepolcro, qui dipinto in forme di sarcofago. Si è voluto vedere un
richiamo alla Grande Passione di
Dürer ma vi si trovano echi così larvati che potrebbero, a nostro avviso,
essere casuali. I soldati sono sei, ma in primo piano si notano solo due in
particolari e antitetiche pose: a sinistra il soldato si sveglia e alza la mano
destra: il visto è forse assonnato, ma non stupito, ed egli certo non pare
avere intenzione di reagire; a destra il suo commilitone dorme, col viso sereno
poggiato sulla mano destra, e così dormono tutti gli altri, posti dietro la
tomba/sarcofago. Su questo, campeggia, con abbreviature e tagli ancora
medievali, la gran frase riferita dall’Angelo alle pie donne accorse al
sepolcro il giorno dopo il sabato: SURREXIT – NON EST HIC, “È risorto, non è qui”.
Il grande annunzio angelico è ripetuto dall’apostolo Matteo e dalla Chiesa nella
Messa e nell’Ufficio Pasquale. Nel nostro caso, l’episodio è riportato dal
nostro pittore in alto, a destra; a sinistra appare in ridotto formato ma con
grande significato la discesa agli inferi del Redentore e la liberazione dei
Giusti morti prima della Redenzione, come il patriarca san Giuseppe e san
Giovanni Battista. In mezzo alle rocce che introducono al “profundo lacu” descritto con somma sapienza dottrinale nella Missa pro defunctis della Chiesa, pieno
di demoni quasi sragionanti e struggenti nella loro dannazione, una larga
apertura lascia intravedere i santi dell’antica alleanza che rotto il buio del “limbo”, degli “inferi”, sono condotti
da Cristo Redentore al Paradiso finalmente aperto, guidati dal Vessillo della
Vittoria (come solennemente si canta al Credo
… “descendit ad inferos” …).
Dopo essersi soffermato sulla Resurrezione, il
nostro artista, seguendo con scrupolosità il ciclo liturgico che ha voluto
sottilmente nascondere nel suo capolavoro, passa immancabilmente all’Ascensione
del Signore, ancora ispirata (seppur in parte) all’omonima xilografia della Piccola Passione di Dürer. Il dettaglio
dell’impronta dei piedi di Cristo (del quale emergono dalle nubi solo le gambe
parzialmente avvolte dal mano e i
piedi), è un chiaro rimando teologico alla duplice natura divina e umana del
Salvatore e risale direttamente all’opera düreriana. Gli apostoli osservano in
piedi la scena, con espressioni stupefatte, pensierose. Solo Maria osserva
pensosa ma serena – a destra del gruppo di apostoli - in ginocchio e in
preghiera, il grande Mistero che si svolge innanzi i suoi occhi. Alle sue
spalle si pone san Pietro, al centro, quasi in asse col Cristo ascendente, il
discepolo prediletto san Giovanni, con sant’Andrea dietro di lui. Gesù lascia
il mondo terreno, avvisando i discepoli che un giorno tornerà allo stesso modo.
Lascia la sua Chiesa fondata su Pietro; Maria come modello perfetto per ogni
credente, come Madre della Chiesa e dei suoi fedeli; l’apostolo Giovanni come
“custode” della Madre e come veicolo privilegiato per la trasmissione al mondo
delle Parole Divine.[31]A parte deve essere vista
la figura di sant’Andrea, il “primo chiamato” (Protocletos), che rimanda alla grande venerazione che la
Chiesa ha avuto per questo santo dopo Pietro e Paolo. Egli, infatti, è l’unico
assieme a questi ultimi e alla Vergine Maria ad essere menzionato più di una
volta nella Messa.[32]
La penultima tavola raffigura la discesa dello
Spirito Santo su Maria e gli apostoli riuniti assieme in preghiera. La Vergine
siede in posizione eminente: al centro, su un trono convesso che pare marmoreo.
Sul suo capo si posa quasi letteralmente la colomba dello Spirito e da questa
si dipartono raggi che vanno a dissolversi in piccole fiammelle verso i
discepoli. Maria appare qui come la Regina apostolorum, negli abiti
raffinati e nella solennità con la quale l’artista la raffigura, al centro del
consesso degli apostoli e con i due discepoli già menzionati prima ai suoi
piedi: san Pietro a destra e san Giovanni a sinistra (entrambi genuflessi).
Conclusa l’analisi delle tavole maggiori, non
possono essere lasciate da parte le straordinarie tavole che circondano
l’intera ancona, raffiguranti santi e profeti dell’antico Testamento (a parte
il caso del Sant’Antonio di Padova cui torneremo più avanti). Renderemo
adesso schematicamente la connessione, non sempre coerente, fra le figure dei
profeti con relative profezie scritte su eleganti cartigli, e le scene del
nuovo Testamento che abbiamo poc’anzi terminato di esaminare.
A sinistra, in basso presso l’Adorazione dei
Magi il santo re Davide, con la tradizionale arpa in mano (egli è ritenuto
dalla tradizione autore del Libro dei Salmi, cantici spirituali che si elevano
al di sopra della semplice preghiera), trattiene un cartiglio con l’iscrizione
tratta dal salmo II: ECCE EGO HODIE GENUI TE (“Ecco io oggi ti ho generato”).[33]La
Chiesa ha sempre utilizzato la grande profezia della nascita del Messia
contenuta nel salmo II, nell’Ufficio di Natale (al Mattutino), e il nostro
pittore, consigliato dal dotto committente, ha voluto collocare il santo re con
il suo vaticinio proprio presso la scena dell’Adorazione dei magi e di
quella immediatamente sopra raffigurante la Natività.
Esattamente di fianco a quest’ultima tavola, si
staglia solenne la figura del patriarca Mosé, con le tavole dei Comandamenti in
mano. Qua la connessione si fa più sottile: la venuta di Cristo non distrugge
l’antica legge ma la porta a compimento. Cristo, infatti, non ripudierà i
Comandamenti dati sul Sinai al santo patriarca, ma ne aggiungerà uno nuovo: il
comandamento della carità.
In altro, di lato all’Annunciazione, la
mistagogia e il gioco di riferimenti si fa più complesso. Compare san Daniele
profeta con un cartiglio recante il versetto (abbreviato all’uso medievale) ECCE
CUM NUBIBUS CAELI QUASI FILIUS HOMINIS [VENIEBAT] (Dan. VII, 13). Il Figlio
dell’uomo viene a Maria dalle nubi, dal cielo, e si fa carne nel suo seno
verginale: il tocco esegetico del committente è sottile, e solo visivamente
restituisce pienamente l’intenzione. Vedere Maria adombrata dallo Spirito che
viene dal Cielo rende più chiare le parole del profeta Daniele, che vide tutto
ciò in una visione notturna.
Forzata appare la collocazione dei profeti Amos e
Gioele immediatamente sopra la stessa scena. Il primo ammonì Israele per la sua
corruzione nel culto verso Dio e per la decadenza morale (un riferimento in
giustapposizione al rifiorimento dei Tempi avvenuto con l’Incarnazione del
Verbo?); il secondo è stato avvicinato, per le sue profezie, alla discesa della
Spirito Santo (san Pietro negli Atti degli Apostoli),[34]e
non vi è stretto legame con l’Annunzio a Maria. Egli porta il cartiglio con il
versetto tratto dal capitolo II del suo Libro (II, 28 […] EFFUNDAM SPIRITUM […]
ET DABO PRODIGIA IN COELO).
Subito dopo, salendo verso il culmine del retablo,
a circondare la Nascita di Maria troviamo San Giovanni Battista,
i profeti Malachia e Baruch (portatori di speranza per la venuta del Messia e
per questo non lontani teologicamente dal parto di sant’Anna) e Sant’Antonio
di Padova. Mentre la presenza dei due profeti è connessa con quella degli
altri “colleghi” e della succitata scena, quella del santo lusitano è solo
ordinata a motivazioni storiche. La presenza francescana è attestata nell’area
fin dal medioevo, e il culto del taumaturgo di Padova si è diffuso velocissimo
nel mondo cattolico, subito dopo la sua canonizzazione, e ciò anche nella
diocesi di Bisarcio cui Ardara apparteneva (anche se al momento della
realizzazione dell’opera era già confluita nella grandissima diocesi di
Sassari). In rapida discesa, il profeta Zaccaria annuncia la sovranità di
Cristo, cui affluiranno le genti di tutta la terra; il patriarca Abramo, fedele
esecutore dell’ordine divino di sacrificare il figlio Isacco, ricorda con questi
vicino e il coltello alla mano destra la prefigurazione del sacrificio del
Figlio di Dio visibile nel suo atto; sotto di lui, infine, il maestoso ciclo di
profeti si chiude col magnifico re Salomone, che mostra un versetto del Cantico
dei Cantici (TOTA PULCHRA EST AMICA MIA ET MACULA NON EST IN TE) che la Chiesa
ha sempre applicato alla Vergine Maria, nel sottolinearne l’Immacolata
Concezione. Salomone, inoltre, con la sua proverbiale e regale saggezza, è
prefigurazione di Cristo, Sapienza incarnata.
Volutamente nel corso di questo modesto lavoro
abbiamo taciuto le discussioni sull’autore dell’opera e del suo committente, da
identificarsi forse nel pingue religioso inginocchiato ai piedi di Maria nella Dormizione.
Al centro della predella dell’altare, è riportato il nome di un certo Joan
Catacolo (o Cataholo), canonico di Sorres (diocesi confinante soppressa
anch’essa nel 1503) nel 1489 e arciprete di Bisarcio nel 1503,[35]
forse il nostro devoto chierico che onora la Vergine Maria nel suo Transito. Il
pittore è stato identificato con tale Giovanni Muru (almeno per la predella),
dallo stesso canonico Spano che ne ritrovò il nome sull’opera nel 1849, sotto
il ciborio, con la data 1515, e questo è riportato dal canonico Spano stesso[36]e
anche da Enrico Costa pochi decenni dopo,[37]che
riportò un utile disegno della forma e disposizioni delle iscrizioni rinvenute
nel 1849 (riportanti anche i nomi degli obreros che materialmente si
occuparono delle spese e della messa in opera). Al Muru sono stati poi
attribuite diverse altre opere, ma si iniziò ad usare prudenza
nell’attribuzione già con E. Brunelli nel primo ‘900, per via della quasi
totale scarsità di notizie su di lui. Anche R. Serra e W. Paris si limitarono a
bloccare il suo nome in quel della predella d’Ardara, senza avanzare
incautamente la sua paternità ad opere che ancora sono in fase di studio. Anche
nel nostro retablo, del resto, si notano diverse mani.
Un’ultima curiosità: autore e committente portavano
il nome di Giovanni: per questo l’apostolo compare così spesso in primo piano?
E per questo, si è voluto aggiungere anche Giovanni il Battista? Misteri della
Storia.
[1] Cfr. E.
Brunelli, Appunti sulla storia della
pittura in Sardegna, in “L’Arte”, 1937, pag. 367.
[2]
Cfr. W. Paris, Santa Maria del Regno. Il
retablo maggiore, in La chiesa di
Santa Maria del Regno di Ardara. Corredo artistico e restauri, Muros, 1997,
pag. 23
[3] Cfr. L.
Eisenhofer, Compendio di Liturgia,
Torino-Roma, 1940, pagg. 17-18.
[4]
La questione della conservazione sull’altare maggiore delle chiese, o presso il
medesimo, della SS.ma Eucarestia è di grande complessità, specie nell’ambito
sardo. L’argomento merita una trattazione a parte. Tuttavia, accenneremo solo
che la conservazione delle Sacre Specie presso (apud) l’altare maggiore è una consuetudine che, nell’Isola, prende
piede nel pieno medioevo (e le testimonianze documentarie e materiali sono
scarse sino al XV secolo).
[5]
Versetto tratto dal ben più esteso Inno Pange
lingua composto nella seconda metà del XIII secolo dal grande domenicano
aquinate.
[6]
Il tema del Cristo sofferente nel sepolcro, in ambito ispanico, emerge
nell’area di Valencia tra la fine del XIV e il primo XV secolo. Si ritrova per
esempio nella certosa di Porta Coeli, dove fu fatta dipingere all’alba del ‘400
dall’abate Bonifacio Ferrer.
[7]
Cfr. G. Goddard-King, Pittura sarda del
Quattro-Cinquecento, a cura di R. Coroneo, Nuoro, 2000. Si tratta della
riedizione critica del primo volume di una mai conclusa serie sull’arte sarda
edito dalla Goddard-King nel 1923, intitolato “The Painters of the Gold Backgrounds”.
[8]
Il cristocentrismo è doppio: per la Presenza Reale nel tabernacolo, e per la
presenza pittorica sullo scomparto maggiore del medesimo.
[9]
Il nastro bianco collocato sul pastorale, negli ultimi tempi riservato
esclusivamente agli abati mitrati, era sino al medioevo utilizzato
indistintamente anche dai vescovi. Cfr. L. Eisenhofer, Compendio di Liturgia, Torino-Roma, 1940, pag. 80
[10][10]
Dal greco, “che prestavano servizio gratuitamente”.
[11]
Alcune icone della tradizione orientale, sia greco-cattolica sia ortodossa,
raffigurano San Damiano con la scatoletta d’unguenti e la spatola, mentre san
Cosma con l’albarello o altri strumenti medici o il libro dei vangeli (o libro
d’arte medica). Il particolare dell’ampolla delle urine non è sempre presente
(essendo un antico metodo d’anamnesi tipico della prassi medica occidentale) ed
è assente dalle raffigurazione sacre orientali.[12] Cfr. L.
Eisenhofer, Compendio di Liturgia,
Torino-Roma, 1940, pagg. 70-74.
[13]
Nell’arte medievale la loro assenza è spesso spiegabile con la superstiziosa
credenza che il giorno stesso che la Chiesa commemora i Santi Innocenti (28
dicembre), pur essendo in piena Ottava di Natale, fosse un giorno infausto
(addirittura si utilizzavano in alcuni luoghi paramenti viola nella credenza
che i Bambini non fossero entrati subito nella Beatitudine eterna). Ciò decretò
un culto in penombra verso questi santi, tranne alcune eccezioni. Solo l’Ottava
si celebrava solennemente, con paramenti bianchi e oro, a ricordare il glorioso
martirio dei fanciulli. Cfr. L. Eisenhofer, Compendio
di Liturgia, Torino-Roma, 1940, pag. 108.
[14]
Santo Stefano primo martire, san Giovanni apostolo ed evangelista, i santi
Innocenti. Cfr. L. Eisenhofer, Compendio
di Liturgia, Torino-Roma, 1940, pag. 108.
[15]
Si ritrova già menzionato, tra San Gerolamo Dottore e San Nicola, nella Litaniae Sanctorum, la cui più antica
compilazione rimonta all’alto medioevo. Non a caso, anche nel nostro retablo
Martino si ritrova non lontano da Nicola.
[16]
Altre chiese oggi scomparse si trovavano nello scomparso villaggio di Bedas
(tra Ploaghe e Codrongianos), Bilikennor (presso Ossi), San Martino (presso le
omonime fonti minerali nella regione di Muros). Ancora presente, invece, seppur
fortemente modificata tra XVII e XVIII secolo, è la chiesa dello scomparso
villaggio di Enene, nelle immediate
vicinanze di Sassari, talora indicata come San Quirico. Al suo interno è
conservata una pregiatissima statua lignea del santo di bottega
sardo-napoletana, risalente al XVIII secolo.
[17]
Taluni hanno frettolosamente scambiato Santo
Stefano e San Nicola per i citati
martiri turritani. In realtà santo Stefano è facilmente riconoscibile per le
pietre (San Gianuario oltre alla palma non ha mai avuto particolari attributi);
San Nicola è stato visto come San Proto perché con abiti vescovili, senza
pensare che la querelle che voleva il
santo fra i primi vescovi di Torres sarebbe nata solo nel primo ‘600 in
competizione con Cagliari (per il Primato giurisdizionale sull’Isola), mentre
il santo compariva prima sempre abbigliato in abiti sacerdotali (larga pianeta
di tipo gotico, stola incrociata e manipolo con palma del martirio, secondo il
tardo e consolidato uso romano). Un dettaglio importante nella raffigurazione
di San Gavino è il fatto che egli cavalchi impetuosamente sui flutti, e non
sulla terra. Oltre ad indicare la perpetua vocazione marittima di Torres (oggi
Porto Torres) e della contigua zona a mare di Sassari (verso est), da dove si
ammirano le isolette Piana e Asinara e, più vicina, la chiesina di “Balai lontano”, dove il santo fu
martirizzato (posta sulla scogliera verso la storica spiaggia di Abbacurrente), rimanda ad una leggenda
nota da secoli nell’area turritana. Una delle numerose colonne della maestosa
navata dell’imponente cattedrale di Torres (oggi basilica), tutte prelevate nel
secolo XI da resti di antichi templi romani, resta sempre umida, e nei secoli
questo singolare fatto ha dato luogo ad una curiosa leggenda. Si narra,
infatti, che mentre la gigantesca colonna si trasportava dall’Asinara verso il
porto di Torres sia caduta nel mare, e un miracoloso intervento di san Gavino,
apparso trionfale e maestoso sui flutti, la abbia tratta in salvo. Il santo
stesso la condusse al lido turritano e da quel giorno restò umida in segno del
miracoloso intervento. Nello sfondo appaiono: alla sinistra due personaggi
intenti a prelevare dalla spiaggia un oggetto non meglio definibile (aiutandosi
con una canna), e sono sovrastati da un castello turrito e ben munito
(allusione all’antica Turris o a Sassari o alla ormai decadente reggia
d’Ardara?); a destra, si nota su un rilievo roccioso una grande chiesa di
pianta pseudo-basilicale, con fronte a salienti e singolare campanile di forme
rimandanti all’architettura franca e germanica del pieno medioevo. Come
noteremo in seguito, l’arte e gli artisti del Centro-Europa non erano
sconosciuti al Maestro d’Ardara. Per altre notizie sulla Passio dei santi martiri di Torres si veda: Passio sanctorum martyrum Gavini Proti et Ianuarii, Centro Studi
Basilica di S. Gavino, Sassari, 1989.
[18] “Venit Iesus in
partes Cæsaréæ Philippi, et interrogábat discípulos suos, dicens: Quem dicunt
hómines esse Fílium hóminis? At illi dixérunt: Alii Ioánnem Baptístam, alii
autem Elíam, álii vero Ieremíam aut unum ex Prophétis. Dicit illis Iesus: Vos autem quem me esse dícitis?
Respóndens Simon Petrus, dixit: Tu es Christus, Fílius Dei vivi. Respóndens
autem Iesus, dixit ei: Beátus es, Simon Bar Iona: quia caro et sanguis non
revelávit tibi, sed Pater meus, qui in coelis est. Et ego dico tibi, quia tu es
Petrus, et super hanc petram ædificábo Ecclésiam meam, et portæ ínferi non
prævalébunt advérsus eam. Et tibi dabo claves regni coelórum. Et quodcúmque
ligáveris super terram, erit ligátum et in coelis: et quodcúmque sólveris super
terram, erit solútum et in coelis” (Matteo XVI, 13-19).[19] Cfr. L.
Eisenhofer, Compendio di Liturgia,
Torino-Roma, 1940, pag. 112.
[20]
La forma irregolare e poco appariscente del nimbo del santo ricorda la sua
appartenenza al mondo veterotestamentario. Solo alla morte di Cristo i giusti
sarebbero stati condotti con lui in Paradiso dopo la liberatrice discesa agli
inferi. È curioso, tuttavia, che questo attributo – che dovrebbe trovarsi anche
per Sant’Anna e spesso per San Giuseppe – si ritrovi solo in questo santo.
[21]
Non necessariamente la C che sta al posto della T indica l’inserimento di un
vocabolo iberico o sardo nel cartiglio. Forse la spiegazione è da ravvisarsi
nell’epoca e nel luogo in cui il tutto è stato concepito, dove il latino
classico era relegato nelle biblioteche di pochi eletti, e la maggioranza degli
ecclesiastici e degli artisti possedeva una conoscenza appena sufficiente del
latino ecclesiastico e curiale. Nei documenti e nelle iscrizioni sarde
dell’epoca si trova spesso, infatti, un latino inficiato dal pesante influsso
catalano e sardo, dunque lontano dal tradizionale “latino da Messale” che tanta
importanza ha avuto sulla cultura occidentale nel corso dei secoli.
[22]
Il baldacchino/alcova che “copre”
Maria, appena preceduto dalla Colomba, pare riecheggiare le parole dell’angelo Gabriele:
“Spiritus
Sanctus superveniet in te, et virtus Altissimi obumbrabit tibi” (Luca I, 35). I più marcati drappi aurei che quasi le
incorniciano il volto, invece, paiono quasi una nicchia che la circonda,
indicandola quasi come “Domus aurea”,
un’altra delle celebri Litanie lauretane.
[23]
Questi dettagli, siano riferimenti ad artisti di una certa levatura come A. Dürer,
siano rimandi a sottili dettagli teologici e devozionali ad un tempo,
dimostrano la grande cultura internazionale dell’artista, coadiuvata certamente
dai suggerimenti del dotto committente (di tutto questo si parlerà in
conclusione).
[24]
A volte il santo, considerato come Patriarca e quindi come personaggio ancora
veterotestamentario, ha il nimbo quadrangolare o comunque non circolare,
secondo l’esempio di quello che nel retablo ardarese abbiamo visto per San
Gioacchino. Il suo essere raffigurato anziano, inoltre, è da ricondurre
all’errata credenza medievale che egli fu concesso in sposo a Maria proprio per
la sua anzianità, così da essere sicuri che la sua Verginità restasse tale.
Niente è più lontano dal vero. Maria conservò la sua integrità di propria
perfetta volontà, così come il santo rispettò e custodì la medesima e la sua,
diventando esemplare capo e custode dell’Alma Famiglia.[25] “Omnes regies servient Ei” recita la
Liturgia nel tempo festivo dell’Epifania: “Tutti i re Lo servono”.
[26]
La forma della stella è singolare. È inscritta all’interno di un cerchio nero,
che fa risaltare ancor più la sua forma e il colore dell’oro, altrimenti
impossibile da rendere dato il medesimo colore utilizzato come sfondo unico per
tutta la scena (così come nella Natività).
Forse, per la forma della stella, il pittore deve essersi ispirato alle
singolari decorazioni fitomorfe in forma di fiore/stella che si ritrovano in
molte chiese romaniche sarde?
[27]
Venerabile Pio XII, Enciclica Munificentissimus
Deus, Roma, 1950.
[28]
È la festa mariana forse più antica di cui si abbia notizia. Già inclusa nel
Sacramentario Gelasiano, rimonta ad epoche ancora precedenti. La si trova
persino nei più antichi calendari festivi dei nestoriani e dei monofisiti.
Un’altra sua particolarità è il non avere nessun collegamento “cronologico” con
le feste del Signore, al contrario delle altre maggiori feste mariane.
[29]
Bellissima nell’ornato, crea però nel leggero difetto prospettico, una
cedevolezza nell’effetto d’insieme.
[30]
I riti erano complessi e si differenziavano molto di luogo in luogo. Il rito
attuale si è stabilizzato solo in età moderna, con pochissime variazioni. Cfr.
L. Eisenhofer, Compendio di Liturgia,
Torino-Roma, 1940, pagg. 178-179. In
alto si nota una piccola scenetta, presa da scritti apocrifi così come del
resto l’intera scena principale, dove un angelo annuncia a Maria la sua
prossima dipartita. Da letteratura apocrifa deriva pure la leggenda che al
momento del Transito della Madre di Dio gli apostoli, che si trovavano a
predicare in terre lontane, furono tutti miracolosamente traslati ai piedi
della Madonna.
[31]
A lui, oltre che il quarto Vangelo, si devono tre Lettere e l’Apocalisse.
[32]
Il santo è menzionato assieme a tutti gli apostoli e ad alcuni insigni martiri
della Chiesa di Roma dei primi secoli nel Communicantes,
subito dopo i santi Pietro e Paolo. La seconda volta è menzionato dopo il Pater noster, sempre assieme al fratello
e all’apostolo delle genti e, ovviamente, alla Vergine Maria. Questo secondo
inserimento si deve forse a san Gregorio magno, che di sant’Andrea fu un grande
devoto e che diede l’assetto pressoché definitivo al Missale Romanum che oggi conosciamo (l’ultima editio typica risale al 1962). Anche in Sardegna il suo culto è
sempre stato vivissimo, sin dal primo medioevo, tanto che da lui ha preso il
nome il mese di novembre in lingua sarda (Sant’Andría).
[35]
Cfr. A. Della Marmora, Itinerario
dell’Isola di Sardegna, tradotto e compendiato con note di Giovanni Spano,
Cagliari, 1868, pagg. 566-568.
[36]
Cfr. G. Spano, Giovanni Muru, pittore
sardo del secolo XVI, tavole nella chiesa d’Ardara, Bullettino Archeologico
Sardo, anno V, 1859, p. 149, nota 2.[
[37] Cfr. E.
Costa, Un giorno ad Ardara, Sassari,
1899, p. 59.
MD